Vestire in modo etico non è una tendenza snob
ma un impegno che dobbiamo rispettare.

Per molti di noi la moda è frivolezza e capriccio, bellissima certamente, ma anche vacua e spesso fuori contesto. Eppure ogni giorno apriamo l’armadio, scegliamo cosa indossare e, di conseguenza, che ruolo interpretare. Il nostro rapporto con i vestiti è l’odi et amo di catulliana memoria, costellato di scelte sbagliate, di armadi inutilmente pieni che guardiamo sconsolati perché hanno tutto ma proprio tutto, tranne quella camicetta che, proprio ora, sarebbe stata perfetta.

Cosa ne è stato delle nostre nonne che sentenziavano “meglio poche cose ma buone”. Per quale motivo compriamo così tanto, spendiamo così tanto, sbagliamo così tanto?
Domanda complessa alla quale prova a dare una risposta Marta D. Riezu nel suo saggio “La moda giusta, un invito a vestire in modo etico” che ci fornisce un quadro accurato sul modo contemporaneo di acquistare, fruire e subire il fashion.
Acquistiamo 50 capi l'anno che indossiamo in media 6 volte.
La moda è cruciale perché, volenti o nolenti, definisce chi siamo. La moda è un gran casino perché costa tantissimo, non è equa né tantomeno solidale, fa molti danni in termini di sfruttamento, evidenzia le diseguaglianze.
Riezu fa uno scintillante paragone con l’industria del food che è almeno trent’anni avanti alla moda: siamo molto sensibili all’etica alimentare ma non prestiamo sufficiente attenzione all’etica del vestire. Eppure moda e alimentazione hanno, allo stesso modo, un grande impatto sul pianeta. Sovrapproduciamo abiti, scarpe, accessori da non più di cinquant’anni. Dalla fine degli ’80 appare il fast fashion salutato da molti come l’eleganza a portata di tutti e definito da altri la democratizzazione dello stile. Ed è così che, pensateci, oggi il prezzo basso è diventato un diritto non un’opzione.
Poco importa se prezzo basso significa sfruttamento (delle materie prime), delocalizzazione (della produzione), furto con scasso (delle idee dei grandi della moda).
Dal 2000 la produzione è raddoppiata e oggi la situazione è chiara: in Europa compriamo in media circa 50 capi (abbigliamento, scarpe, accessori) l’anno, li indossiamo sei volte e poi bye bye. Le statistiche parlano chiaro: ogni tre prodotti realizzati uno solo viene effettivamente venduto.
La sostenibilità, chiosa Riezu, non è un capriccio ma un patto tra qualità e rispetto che esiste da molto tempo. Il consumismo, il basso costo, il buttar via a cuor leggero, queste sì che sono mode recenti.
Si calcola che per neutralizzare l’impatto ecologico di un abito servano dieci anni. Ma un bell’abito, di ottima qualità, magari cucito da un sarto, può vivere alla grande per almeno il doppio. Non so voi, ma noi apparteniamo a una generazione dove in casa c’era una macchina da cucire, dove si rammendava, dove si metteva la naftalina perché le cose andavano custodite affinché durassero più a lungo.
Sembra facile, ma oggi buttare un abito è più economico che farlo rammendare, a meno che sappiate cucire o che abbiate una sarta brava. Sì, che poi le sarte, le rammendatrici, le ricamatrici, le magliaie, le modiste sono tutte specie in via d’estinzione.

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